Bisogna salire fino in alta Valsassina, percorrendola per intero, per trovare il sapore rustico dello scapinasc. Si percorre una strada battuta dalla storia e celebrata dalla letteratura, quella, per intenderci, che il Manzoni fa percorrere ai lanzichenecchi. Siamo nel 1630 e sono giusto questi gli anni di… nascita dello scapinasc. Da poco tempo, grazie anche all’impulso dato dall’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, nei prati di fondovalle si coltiva il granoturco, chiamato anche carlone in devoto ossequio del cardinale; e sulle pendici più sopra, sui terrazzamenti faticosamente strappati al bosco e sostenuti da muri a secco, che ogni anno bisogna rincalzare a causa dei dilavamenti della pioggia, si è sviluppata la coltura del grano saraceno. Sono cereali nobili, rispetto a quelli coltivati in precedenza e buoni solo per preparare la pult, quella pappina che si trova documentata già in epoca romana. Con la farina del primo si prepara la polenta, con quella del secondo si cominciano a tirare le paste che arriveranno, in gustose preparazioni come i pizzoccheri nel caso valtellinese e appunto gli scapinasc in quello valsassinese, fino ai nostri giorni. Gli scapinasc, che devono il loro nome agli scapin, le ciabatte o pantofole di panno greve e infeltrito delle quale richiamano la forma, sono ravioli di grosse dimensioni. Nascono, e sostanzialmente sono considerati tali ancora oggi, come un piatto unico, per la presenza di tutti gli ingredienti disponibili sul posto: farina e uova per la pasta, formaggio, frutta essiccata e latte per il ripieno.

Lasciati i lanzichenecchi alle pagine manzoniane, facciamo un salto di oltre tre secoli, agli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale. L’alta Valsassina diventa zona di grande sviluppo turistico, grazie soprattutto all’apertura, nel 1957, dell’ardita funivia che collega Margno con il Pian delle Betulle. Assieme alle seconde case si aprono si aprono anche i primi negozi (fino alla guerra le uniche botteghe erano giù in riva al Lario, a Bellano, dove si scendeva almeno una volta la settimana in occasione del grande mercato che offriva l’opportunità dello scambio tra i prodotti della montagna e della pianura) e il nostro ciabattone cambia qualche ingrediente: la farina bianca prende il posto di quella di grano saraceno (mitigandone così l’asciutezza); l’uva sultanina sostituisce la frutta locale essiccata; il sapore dolce viene accentuato sostituendo nel ripieno il pane grattugiato con gli amaretti. È l’evoluzione del gusto alimentare resa possibile dalla nuova disponibilità di ingredienti. Rimane invece invariata la tradizione di legare la preparazione dello scapinasc alla festa patronale. Questo almeno fino a quando (e siamo ai primi anni sessanta del secolo scorso) un ristoratore del posto non sperimenta una variante, aggiungendo, all’impasto del ripieno, un dosaggio di carni e l’ormai universale formaggio grana. Lo scapinasc perde così la sua caratteristica di raviolo dolce e diventa un piatto tipico della ristorazione locale, fino a trasformarsi in una «bandiera» gastronomica locale. Oggi è il piatto fisso nella carta del ristorante che ne conserva gelosamente la ricetta esclusiva tramandata dal suocero che l’aveva elaborata al genero che oggi ne continua l’attività in cucina. Lo scapinasc è nel menù tutti i giorni, mezzogiorno e sera; su ordinazione è possibile trovare la variante dolce, altrimenti gustabile solo in occasione della festa patronale. Quest’ultima viene celebrata per Sant’Antonio Abate, la cui statua, nella chiesetta cinquecentesca, tiene alla catena un diavoletto.
testo di ANGELO SALA
pubblicato sul sito www.valsassinacultura.it

 

Questo testo contribuisce al progetto Il paesaggio culturale alpino su Wikipedia ed è distribuito dalla Comunità Montana Valsassina Valvarrone Val d’Esino Riviera con Licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale