“Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquanta mila; son diavoli, sono ariani, sono anticristi; hanno saccheggiato Cortenuova; han dato fuoco a Primaluna; devastano Introbbio, Pasturo, Barsio; sono arrivati a Balabbio; domani son qui”. Queste le “voci” che giungevano anche allo spaventatissimo don Abbondio, intorno alla “calata” dei Lanzichenecchi. “Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que’ demoni – racconta il Manzoni – si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco”.

Le prime due “tappe” valsassinesi dell’esercito alemanno di Rambaldo di Collalto furono Taceno e Parlasco. Di Taceno la cinquecentesca “Descritione della Valsassina” di Paride Cattaneo Della Torre rileva che “nell’entrar di detta terra si passa una valle detta la Maladica et questa tal acqua si rivolge molte rote de molini et altri edificj” e aggiunge che “si pervien poi alla sua chiesa di novo ristorata, dedicata alla gloriosa Vergine Maria”, prima di elencare le principali famiglie del luogo e rimproverare i suoi abitanti che “hanno assai fertile territorio, ma per la loro dapochagine mal coltivato”. Parlasco è definita semplicemente “piccola villetta” dall’autore della “Descritione”, il quale ricorda che “pocho longi” esisteva “una Roccha, detta la fortezza di Marmoro sopra un colle che risguarda sopra il fiume Pioverna”.

In questo castello Antonio Balbiani colloca Sigifredo Falsandri conte di Marmoro, il “buon signore” e insieme “Lasco, il bandito della Valsassina”, protagonista del suo romanzo storico. Sotto le spoglie del conte di Marmoro si cela infatti il Lasco che terrorizza la popolazione della Valsassina. In onore di questo personaggio romanzesco, divenuto una sorta di leggenda vivente, il Comune di Parlasco ha inaugurato quattordici affreschi sui muri delle case del paese che ripercorrono alcuni momenti della vita di questo dottor Jekyll e mister Hyde della Valsassina. Il cartiglio che è parte integrante del primo affresco mette subito in guardia: “Lasco! Il buon signore! Lupo e agnello. Un’elemosina e un furto. Una messa e una coltellata. Le parti di Dio e di Satana!”. Il personaggio e le pagine del romanzo sono stati la fonte di ispirazione per le opere di Franco Mora di Viadana (Mantova), Manuela Sabatini valsassinese di Introbio, Eliana Pechenino di Cuneo, Donato Frisia jr, di Merate, Tiziano Lucchesi di Pisa, quattro alunni della scuola artistica di Trento con il professor Rolando De Filippis, Itala Gasparini di Milano, Aliona Bulicano ucraina ma residente a Piantedo (Sondrio), Paola Magini di Siena, Erika Rielhe di Torino, Okana Milovzorova ucraina ma residente a Fano nelle Marche, Irene Colombo valsassinese di Moggio, Salvo Caramagno di Catania e Pavel Gutu, ucraino ma residente a Sondrio. Si tratta degli artisti selezionati tra i venticinque che con i loro bozzetti hanno partecipato al concorso indetto dal Comune di Parlasco in collaborazione con il Comune di Taceno per dare vita agli affreschi sui muri dei due paesi.

Il progetto denominato “Luoghi non comuni: Taceno e Parlasco tra leggende e storie” si è posto l’obiettivo di creare un percorso artistico-culturale volto a riscoprire tradizioni, leggenda, storia e ambiente naturale, riqualificando e valorizzando il vecchio nucleo. Un po’ come la bolognese Dozza sulle colline del Sillaro e del Santerno, la varesina Arcumeggia in Valcuvia, la sarda Orgosolo in Barbagia e la bellunese Cibiana nel Cadore, giusto per ricordare alcuni dei più noti tra gli ormai quasi duecento “paesi dipinti” distribuiti qua e là per l’italico stivale, isole comprese.

Il leggendario buon signore di Marmoro, che sfruttando la paura suscitata dalla caccia selvatica rapinava la gente, è stato il prescelto da quanti hanno realizzato le loro opere a Parlasco, confermando così la facilità con la quale il Lasco era diventato, alla fine dell’Ottocento, il romanzo nazionale della Valsassina, letto e riletto durante le sere invernali nelle adunanze nelle stalle, popolare in tutti i paesi. Personaggi, paesaggi e scene hanno dato luogo ad affreschi diversi, uno solo dei quali marcatamente naif mentre nella maggior parte prevale il realismo delle scene e quello dell’ambientazione: le montagne sullo sfondo sono infatti quelle alle spalle del paese, i cosiddetti Pizzi di Parlasco, la propaggine più settentrionale del gruppo delle Grigne. Molto interessante anche il rapporto con le architetture sulle quali gli affreschi sono stati realizzati, con risultati che hanno raggiunto l’eccellenza in almeno un paio di casi: la coppia di affreschi che racconta il ferimento e il soccorso di una vittima del Lasco, che incornicia un vecchio portone ligneo, e quello della tavolata dai tratti quasi fiamminghi nella quale l’architettura del dipinto ottimamente si integra con la architettura della casa che lo ospita. Di grande efficacia espressiva (il parere è naturalmente soggettivo) l’affresco con il primo piano dei cavalieri, quello del naufragio e quello delle maschere, anche per la loro capacità di rafforzare il legame di chi li osserva con le pagine del Lasco e quindi con alcune delle tradizioni locali. Il romanzo di Antonio Balbiani ha infatti una sua spiccata vitalità ed è facile intuirne i motivi. Il lettore, ma soprattutto chi ascoltava la lettura – la prima edizione è del 1871 – si riconosceva in questa piccola epopea tessuta di leggende, usanze, riferimenti storici locali.

Tra le pagine c’è il racconto della strega di Tartavalle, la Bisaga. E Bisaga è il nome dell’antico tracciato, una volta l’unico tra Parlasco e Taceno nel cui vecchio nucleo, in particolare lungo la via Vittorio Emanuele che lo attraversa in tutta la sua estensione, sono state realizzate una serie di opere rappresentative dei vecchi mestieri e delle attività commerciali insediate un tempo lungo la strada. Finestre sul passato che raccontano con il linguaggio figurativo gli antichi lavori. Anche qui il primo affresco ha un carattere didascalico: “una finestra sul passato” è il titolo dell’opera di Irene Colombo di Moggio che ha ripreso tre scorci del paese fotografati all’inizio del Novecento. Si incontrano poi “Vita nei campi” di Pavel Gutu, “Stare insieme” di Luigi Mantica valsassinese di Introbio, il fornaio e il ramaio di Tiziano Lucchesi, il casaro di Donato Frisia jr., il maniscalco di Eliana Pechenino e Erika Riehle, “Quattro chiacchiere in trattoria” di Paola Magini, “Ringraziamento” di Salvo Caramagno, “Quotidianità” della lecchese Rosalba Citera, “Emozioni e giochi d’altri tempi” di Franco Mora, “Frutti e colori della nostra valle” di Manuela Sabatini e il ciabattino di Rolando De Filippis.

L’immagine di Taceno è così impreziosita da questi tredici affreschi dai quali si capisce quanto il lavoro – soprattutto quello artigiano – aveva una sua intrinseca validità in quanto era in stretta connessione con l’ambiente naturale e con le risorse che questo offriva, era inserito e traeva la propria motivazione dal non esaurirsi nel chiuso di una bottega ma dall’essere un’attività a favore della comunità e che dalla comunità riceveva il giusto riconoscimento. Vasta è la gamma di attività professionali che si sono rapidamente estinte negli ultimi decenni. Di qui il desiderio di fissarne almeno alcune in questi affreschi che sono sì il documento di una fatica e di un impegno ma soprattutto di una condizione esistenziale. Quest’ultima è il comune denominatore che dà unitarietà ad una trattazione pittorica che abbraccia il lavoro del contadino, del piccolo artigiano, della “industria” familiare come quella del fornaio e del casaro, fino alla quotidianità della condizione femminile, espressa nel bucato lungo la sponda del torrente. Sono immagini, volti e lavorazioni che rimandano ad un lungo periodo della storia della Valsassina – dove gli Statuti medioevali imponevano ai lavoranti di non emigrare portando con sé i segreti dei mestieri considerati patrimonio dell’intera comunità – che molti hanno già dimenticato e che i più giovani non hanno fatto in tempo a conoscere.

Taceno ha imboccato questa strada per divulgare la memoria del paese. La storia del paese infatti è un tutt’uno con la storia delle attività economiche locali, nelle quali l’artigianato di matrice rurale è stato parte determinante. In particolare si evince la lotta dell’uomo di montagna per la propria sussistenza, il suo costante rapporto di amore con la natura, per la sua quotidiana fatica alleviata dalla solidarietà e dalla condivisione, valori che possono essere punto di riferimento anche per la nostra società post industriale. In fondo è lo stesso interrogativo di fronte alle pagine del Lasco di Antonio Balbiani, e cioè cosa ne rimanga di valido ancora oggi. Alcune scene tengono ancora deste la lettura e la curiosità: la descrizione dell’interno del castello del buon signore con il suo segreto; il racconto della strega di Tartavalle che prende l’avvio nella filèra della Nina del Gabrio di Bindo dove le donne “ingannano l’ore invernali girando il fuso e mulinando la lingua”; il drammatico colloquio tra Lasco e Matilde Boldoni; la “caccia selvatica” che passa col suo notturno brivido di terrore tra selve e pianori; la tragica fine del protagonista. Rimane, soprattutto, un sapore d’antica favola dei nostri monti e delle nostre valli, una favola che i nonni potrebbero raccontare ai nipoti. Ammesso che vi siano ancora nonni che la rammentino e ragazzi disposti ad ascoltarli.

testo di ANGELO SALA
pubblicato sul sito www.valsassinacultura.it

 

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