Il forte Montecchio Nord di Colico, altrimenti noto come Lusardi, è l’unico esempio di architettura fortificata italiana della prima guerra mondiale giunto sino a noi completo di cupole in acciaio, cannoni e buona parte dell’impiantistica. Quello di Colico è il tipico esempio di struttura legata alla geografia, oltre a dimostrare appieno i criteri strategici e costruttivi imperanti fra gli alti comandi europei dell’epoca. Erano anni in cui le artiglierie venivano considerate la carta decisiva per chiudere rapidamente i conflitti e spezzare sul nascere ogni velleità del nemico. Da questo punto di vista la posizione geografica di Colico divenne oggetto già dalla seconda metà dell’Ottocento di studi per l’installazione di una batteria destinata a chiudere gli sbocchi della Val Chiavenna e costituire uno sbarramento arretrato per bloccare la Valtellina (confine svizzero e austriaco) e controllare la viabilità dell’alto lago. Si considerò dapprima la costruzione di un nuovo forte a Fuentes, ipotesi scartata per l’eccessiva esposizione del colle ai tiri di controbatteria. Si preferì invece studiare la realizzazione di semplici batterie campali: oltre a Fuentes anche la penisola di Piona avrebbe ospitato dei pezzi, installati però in caverna. Congetture risalenti al 1901, allorché il quadro internazionale concedeva ai nostri comandi militari tempo per studi e dibattiti.

Ben diverso invece il tasso di nervosismo allorché, giungiamo al 1911, venne pianificata la difesa del settore denominato «Mera-Adda». I mutamenti avvenuti nel campo delle artiglierie da assedio crearono non poche indecisioni ai tecnici militari. In aprile si ipotizzò il seguente schieramento: Fuentes e Piona avrebbero ospitato parecchie postazioni campali, mentre la «batteria corazzata» su quattro pezzi da 149 mm in cupole corazzate girevoli sarebbe dovuta sorgere a Montecchio Sud. Nuovo contrordine a luglio: confermati Fuentes e Piona, si optò invece per la costruzione dell’opera principale a Montecchio Nord, nelle vicinanze del nodo ferroviario. Ed in pieno conflitto, con l’edificazione della «Linea Cadorna», venne ad aggiungersi la batteria su quattro pezzi da 75 mm, poco a sud di Castel Vezio, con osservatorio in roccia ubicato a ridosso dell’antica fortezza ed ancora visibile. Ma le carte d’epoca, come vedremo successivamente, attribuiscono a quest’ultimo appostamento un compito che esula dalla difesa della piana di Colico.

Le vicende costruttive del forte Montecchio occupano all’incirca due anni: i fondi necessari vennero stanziati con apposita legge nel 1912, mentre pochi mesi più tardi la direzione lavori del Genio militare di Milano eseguì, sullo schema di altri forti costruiti a difesa delle nostre frontiere, il progetto esecutivo. Innanzitutto si rese necessario approntare rami viabilistici, spesso con notevoli lavori in roccia, in grado di assicurare il transito ad artiglierie ed automezzi: le strade che conducono al Montecchio, a Piona ed alla sommità di Fuentes vennero terminate ad inizio dicembre 1913. Le prime fasi del conflitto videro la struttura di Colico ancora in corso di allestimento; ma nel dicembre 1914 i serventi delle quattro cupole ed al piccolo osservatorio in acciaio erano pronti ad eseguire il loro compito in quest’ultimo baluardo a difesa della pianura lombarda. Ma nell’estate del 1915, ad appena due mesi dall’entrata in guerra dell’Italia, al forte furono tolti i quattro cannoni da 149 mm. Le prime settimane di guerra avevano palesemente dimostrato come, nel duello tra cannone e corazza, questo tipo di opere possenti ma troppo raccolte, fossero l’ideale bersaglio per i mortai d’assedio da 350 e 420 mm schierati da austriaci e tedeschi. Sotto i colpi di maglio delle artiglierie, svanì sul campo e con gravi conseguenze la fiducia nei forti, solo teoricamente perfetti, voluti e progettati dal generale Henry Alexis Brialmont. Solo nel marzo 1918 i cannoni tornarono nel forte di Colico. L’ordine partì dall’allora sottocapo di stato maggiore, Badoglio, perché si temeva una possibile spallata austriaca su fronte dello Stelvio-Tonale. Rimasto nel dopoguerra armato ed attivo, ritornò negli anni trenta a svolgere una funzione difensiva ben precisa. Era il momento delle grandi «linee» nazionali come la Maginot in Francia e la Sigfrido in Germania. In Italia si comincia a parlare del Vallo Alpino del Littorio: migliaia di bunker in calcestruzzo nascosti fra monti e boschi dal Piemonte alla Slovenia. Il forte di Colico, con quelli di Tirano e Bormio, avrebbe formato l’ossatura del Vallo al confine svizzero. Il presidio del forte venne affidato alla Guardia alla frontiera, organismo di «alpini senza penna» appositamente creato per «chiudere le porte di casa» come disse Mussolini. L’esito drammatico del secondo conflitto mondiale finisce con il consegnare il forte alle truppe tedesche e della Repubblica sociale italiana. Il Lusardi deve costituire l’avamposto del «ridotto alpino» della Repubblica sociale, le cui truppe, assieme a soldati tedeschi, presidiano l’opera fino ai combattimenti di fine aprile 1945. Tocca ad un maresciallo della Wermacht consegnare le chiavi del forte ai partigiani, dopo uno scontro a fuoco. In quell’occasione vengono anche sparati gli unici colpi di questo gigante di cemento ed acciaio. Furono colpi sparati probabilmente per curiosità. La distruzione delle tavole di tiro, prima della resa, impediva ogni efficace utilizzo dei quattro pezzi. Basta recarsi sul posto per capire come l’ipotesi di colpi diretti a sud contro la «colonna Mussolini» sia da consegnare al settore leggende belliche. Dopo la guerra, la struttura funge quindi da deposito munizioni dell’esercito italiano prima della «pensione» e del lungo periodo di abbandono che precede gli interventi di restauro e valorizzazione degli ultimi anni.

Nel visitare il forte non si può non restare a bocca aperta: si comincia dagli alloggi, salendo lungo la galleria blindata con feritoie, superando il cunicolo delle polveriere scavate nel cuore della montagna e dotata di un impianto di deumidifcazione, per raggiungere la batteria, un edificio in pietra e calcestruzzo su due piani. Al primo troviamo il locale del gruppo elettrogeno (un generatore dotato di un innovativo sistema di abbattimento fumi) ed altri magazzini, mentre al secondo piano è possibile vedere il pozzo dell’osservatorio, salire nelle cupole per studiarne la tipologia dell’installazione e dei pezzi. Tutto è perfettamente funzionante: è possibile ruotare l’intera torretta e regolare, senza fatica, l’alzo della canna del peso di quasi quattro tonnellate. Ovunque scritte degli anni trenta. Cupole e cannoni sono della fabbrica francese Schneider. Lo spessore totale delle cupole si aggira sui 16 centimetri, comunque insufficiente già nel 1915 a sostenere tiri di mortai d’assedio. Interessante anche il sistema di condotte per l’areazione dei locali ed il sistema di tubi in ottone (un interfono identico a quello impiegato sulle navi) per la trasmissione dei dati ai quattro pezzi. Alla sommità della batteria le cupole si offrono per essere immortalate dalle fotografie di questa corazzata di cemento.

testo di ANGELO SALA
pubblicato sul sito www.valsassinacultura.it

 

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