Memorie di mercanti, pellegrini, eserciti attraverso la Val Biandino, lungo la strada che dalla pianura padana portava in Valtellina e nel centro Europa

 

È un viaggio a ritroso nel tempo, compiuto seguendo itinerari antichi, attraverso sentieri che ci portano in un mondo in parte ancora integro e vivo e in parte ormai abbandonato, quello che da Introbio sale nella conca di Biandino. Domina la scena l’elegante piramide del Pizzo Tre Signori, per secoli roccioso bastione di confine tra il Ducato di Milano, la Serenissima e i Grigioni. Tre realtà politiche che si contesero a lungo la terra di Biandino che già in precedenza aveva conosciuto altre pagine di storia. Dai secoli più remoti, infatti, la strada che da Introbio risale la valle della Troggia, attraversa la conca di Biandino, valica i passi della Cazza e di Trona e scende in Val Gerola raggiungendo Morbegno, venne percorsa da mercanti, pellegrini ed eserciti. Era infatti la strada più breve che dalla pianura lombarda, e in particolare da Milano, portava in Valtellina e da qui, attraverso i valichi alpini, nel cuore dell’Europa. E si vuole che a Introbio, a custodire questa via gentium, esistesse una stazione militare fin dai tempi romani.

La conca di Biandino era quindi importante punto di transito e di sosta, ricca di acqua e di pascoli. Doveva apparire una sorta di paradiso terrestre, a giudicare da quanto lasciò scritto, nella seconda metà del 1500, Paride Cattaneo della Torre, il canonico estensore di una descrizione della Valsassina a beneficio del cardinale Carlo Borromeo che si apprestava ad effettuarvi la visita pastorale, secondo il quale i pastori erano «ben pasciuti et grassi» e godevano «assai quella morbida e poltronesca vita». Il buon canonico, evidentemente, aveva calcato un po’ la mano. Se è pur vero che la terra di Biandino è ricca di pascoli e di acqua, è altrettanto vero che, come tutte le terre di montagna, è soprattutto scomoda, ripida e faticosa. Lo sapevano bene i bergamini che ogn estate vi salivano con le loro mandrie trovandosi «distanti dalla parrocchiale cinque o sei miglia di strada alpestre e impraticabile» così che «non hanno chi li ammaestri nella Dottrina Cristiana, ne gli insegni il Pater noster. In caso di morte non hanno chi gl’assista, non potendo li Curati, per la longhezza del disastroso viaggio far quello, che per ragione dell’officio loro far si dovrebbe». Così avevano scritto all’arcivescovo di Milano, nell’autunno del 1664, «li bergamini del Monte di Biandino e Sasso» supplicandone «licenza di fabricar un Oratorio acciò nelli tre o quattro mesi d’estate, ch’abitano in quelle Montagne possano le loro famiglie sentire la Messa». La supplica trovò immediata accoglienza visto che in un atto notarile del 1670 l’Oratorio della Madonna della Neve risulta «costrutto ed eretto». Le spese per la realizzazione dell’edificio vennero sostenute dalla famiglia Annovazzi che dalla bergamasca Valtorta era arrivata in Valsassina, stabilendosi a Introbio, nel quindicesimo secolo. Quelle per il mantenimento del cappellano vennero invece sostenute in solido dai bergamini degli alpeggi di Biandino, Sasso e Varrone. Da allora la chiesetta è meta di pellegrini e di supplicanti.

La protezione della Vergine era invocata da tutti coloro che vivevano e lavoravano in montagna. I bergamini e i pastori, naturalmente, poi anche i boscaioli, i carbonai, i minatori. Questi ultimi sono stati, dopo i caricatori degli alpeggi, i grandi protagonisti delle vicende socio economiche di Biandino. Le miniere, già attive in epoca celtica e rimaste funzionanti fino a tutto il 1800, con una nuova, breve parentesi operativa negli anni a noi più vicini della pretesa autarchia fascista, erano tutte in quota, ad un’altezza vicina ai duemila metri. I «fraini», come da queste parti venivano chiamati i cavatori di minerali ferrosi, raggiungevano il loro luogo di lavoro in autunno, dopo la festa di San Michele che segnava la fine dei lavori agricoli, e vi restavano fino a primavera, estraendo minerale per tutto l’inverno. Erano gli insediamenti più lontani e isolati, aggrappati alla montagna, per quasi un secolo rimasti abbandonati e spenti nel loro silenzio, oggi tornati a vivere perché la fitta rete dei percorsi del minerale e dei «fraini» costituisce il tracciato che consente, agli escursionisti, di effettuare in quota l’intero anello della Val Biandino.

testo di ANGELO SALA
pubblicato sul sito www.valsassinacultura.it

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