I primi insediamenti lungo le boscose pendici del monte Legnone hanno origine antichissima: risalgono alla medio-tarda età del bronzo. A testimoniare la presenza di questi primi abitanti furono i ritrovamenti di un ascia di bronzo databile intorno al XVI sec. A.C. e di una scure di analogo materiale risalente con ogni probabilità all’ VIII secolo a.C. Oltre al rinvenimento di questi due cimeli, avvenute tra il 1883 e il 1885, furono reperite alcune suppellettili in ferro e ceramica di chiara fattura celtica, costruite tra il IV e III sec. A.C. che proverebbero la presenza di questo gruppo etnico. Le origini del nome Pagnona potrebbero risiedere nel termine latino “pagus” (villaggio) oppure nel nome proprio romano “Pannonius”. I romani, con la progressiva occupazione della Valsassina, andarono aprendo vie di comunicazione alternative e potenziarono quelle già esistenti, costruendo rocche, fortificazioni e muraglie di sbarramento in diversi punti del territorio, tra queste strutture difensive era annoverata la torre di avvistamento di Pagnona.

Come storicamente provato le comunità di Premana e Pagnona sono sempre state legate alle vicende della Valsassina piuttosto che a quelle del resto della Valvarrone. Lo si rileva dai documenti del Consiglio di Valle, antico organismo di autogoverno delle libere comunità valsassinesi. Gli statuti di tale organo stabilivano, tra l’altro, i confini e la suddivisione del territorio in quattro Squadre. Pagnona apparteneva alla Squadra di Cugnolo o Chignolo che, partendo da Cortenova, era composta dalla Val Casargo e dall’alta Valvarrone. Le vicende storiche pagnonesi da questo momento in poi, coincidono con quelle valsassinesi. Col diradarsi delle pressioni barbariche sull’Italia, verso l’anno Mille, l’intera Valsassina diventa un feudo della famiglia dei Della Torre di Primaluna. Durante le lotte tra Guelfi e Ghibellini, le famiglie nobili valsassinesi sostengono un duro conflitto, provocando distruzione e morte. Non siamo in grado di sapere con certezza quanto questo periodo abbia interessato direttamente Pagnona e quali ne siano state le conseguenze. Una notizia diretta sul paese di quel tempo la troviamo nel “Liber Sanctorum Mediolani” che annovera, tra gli edifici adibiti al culto della diocesi milanese ed esistenti alla fine del XIII secolo, due chiese site nel pagnonese: quella di Sant’Andrea e quella di San Michele. La prima corrisponde all’attuale parrocchiale, della seconda, già tre secoli dopo, se ne sono perse le tracce. Un’ipotesi sulla scomparsa di questa chiesa (non facilmente dimostrabile) vuole che essa facesse parte del complesso della Torre e che sia stata distrutta con essa. Infatti il canonico Paride Cattaneo Della Torre sostiene che il fortilizio della Torre era sorto intorno al 1150 (probabilmente sui resti del vecchio punto di osservazione romano), durante le famigerate lotte tra Guelfi e Ghibellini. Una seconda congettura, probabilmente più attendibile, la vorrebbe collocata nella posizione in cui oggi si trova la cappella di San Rocco.

Nel periodo medioevale, il territorio di Pagnona pagava l’intera decima ai Torriani di Primaluna. Si hanno notizie storiche della prima metà del 1400, quando alla torre di Pagnona,della quale non rimangono cimeli certi, si annetteva grande importanza per impedire ai veneziani la discesa verso il lago, paventata anche a causa dell’esistenza dei complotti con i potentati di Corenno.

La Valvarrone è sempre stata descritta come una terra inospitale e deserta, inaccessibile fino ai tempi della Grande Guerra, quando, precisamente nel 1917, venne tracciata a colpi di mine la strada militare che attraversava la valle e andava a congiungersi con la carrozzabile giungente a Premana, terminata nel suo ultimo tratto pochi anni prima. L’economia locale si basava sulla produzione del carbone al servizio delle fucine, numerosi erano gli operai del ferro, ma verso il XVII secolo, il disboscamento aveva raggiunto il suo apice. Il territorio era soggetto a numerose frane. Le popolazioni erano estremamente povere, la terra veniva coltivata ovunque a segale, miglio e pochissimo frumento, che insieme a castagne, latticini, prodotti dell’orto e a varie specie di erbe raccolte nei prati costituivano l’alimentazione base. Sappiamo, da una lettera indirizzata a San Carlo nel 1569, che a Pagnona c’erano “9 fabbri e 5 carbonai oltre a 6 calzolari e molti poveri et carchi d’infiniti bisogni”. Questa endemica povertà aveva da tempo costretto gli uomini ad emigrare. Non è possibile stabilire l’epoca esatta alla quale risale il fenomeno. Nemmeno l’apertura del forno di fusione ad opera di Paolo Mornico di Cortenova, avvenuta nel 1570, poteva servire ad arginare l’abbandono del paese. Va ricordato che gli spostamenti riguardavano l’intera valle ed avvenivano sia in entrata, sia in uscita dai luoghi originari. I primi movimenti riguardarono spostamenti tra paesi vicini, ad esempio, risale alla prima metà del ‘500 il trasferimento a Pagnona dei Tagliaferri, carbonai provenienti dalla val di Scalve e per questo detti Scalvini, i quali entrarono ben presto nel novero delle famiglie benestanti. Successivamente il fenomeno si allargò interessando diverse regioni italiane prima ed alcuni stati esteri in seguito, in prevalenza Spagna, Svizzera e Francia. Fu così che nacquero le Compagnie degli Emigranti, libere associazioni che mantenevano costanti contatti con la terra d’origine e spesso erano artefici di donazioni alle chiese locali. Angelo Borghi scrive: “Anche Pagnona aveva una sua Compagnia, forse ramo della Confraternita dei Santi Ambrogio e Carlo, di cui restano nella parrocchiale donativi importanti, come i paramenti di broccato e velluti che per tradizione si dice appartenessero ad una dogaressa o il turibolo settecentesco descritto da Zastrow”. A volte qualcuno di loro ritornava definitivamente ai luoghi d’origine. Infatti tra le famiglie dei Buttera che nella prima metà del secolo XVI vivevano a Massa, il prete Stefano fece ritorno per diventare prima cappellano e poi parroco di Tremenico.

Nel 1629 i Lanzichenecchi attraversarono la Valsassina seminando ovunque morte, depredando la popolazione, risparmiarono ben poche località. Alessandro Tadino nel suo resoconto di quei tragici avvenimenti non cita cinque paesi: Premana, Pagnona, Indovero, Narro e Moggio. A seguito del loro passaggio si diffuse la peste ricordata da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. In tutta la Valsassina vi furono numerosissimi morti, solo Pagnona fu risparmiata dall’epidemia. L’immunità dal contagio fu dovuta al rigoroso isolamento del paese e all’impietoso blocco delle vie di accesso al centro abitato. A tale proposito si racconta il seguente episodio: ” Tre uomini di Casargo, scesi fino al Varrone, stavano per raggiungere Pagnona quando giunti in località Salavar, furono fermati e respinti energicamente dalle guardie che sorvegliavano la strada. I tre si ammalarono di peste e morirono nei pressi”. Nel 1727, a ricordare lo scampato pericolo fu edificata in quel luogo una cappelletta. Dieci anni più tardi, tra il centro abitato di allora e la Torre, sorse la cappella di San Rocco, sulla quale venne posta la seguente dedica: “PAGNONA PRESERVATA DALLA PESTE 1629-1630. RICONOSCENTE”. Sull’esattezza storica dell’episodio pende però un ragionevole dubbio. Infatti, quando nel 1647, si mise all’incanto la Valsassina, acquistata dal Conte Giulio Monti, un incaricato del Magistrato Straordinario si recò a Cortenova per indagare sullo stato del feudo. Qui convocò i rappresentanti di tutte le comunità locali. In quell’occasione il console di Pagnona affermò: “Avanti la peste vi erano più fuochi dei suddetti 36”. Ebbene questa dichiarazione contrasta con la tradizione. Andrea Orlandi spiegò così la discrepanza: “… ne io so come risolvere l’apparente contraddizione, se non supponendo che il morbo, risparmiando il paese, abbia colpite una o più delle sue frazioni, che si chiamano Bogio, Tagliolo, Praglione, Casgnela e Grumello, le quali si vuole che in quel tempo servissero da dimora permanente a più famiglie”. Questa ipotesi potrebbe non essere del tutto campata in aria.

La vita dei nostri antenati, dal Diciassettesimo secolo fino alla prima metà del Ventesimo secolo, era segnata dalla povertà e dalla fame. Nel paese restavano solo le donne, i bambini ed alcuni artigiani che svolgevano la loro attività in loco. Rimanevano pochi fabbri, carbonai, mugnai e scalpellini, quelli che partivano si adattavano ai faticosi lavori di muratore, si impiegavano nelle fucine e negli arsenali o in altre durissime professioni. Le donne, dunque, dovevano prendersi carico, per gran parte dell’anno, della conduzione familiare e contemporaneamente della campagna. I bambini all’età di sei anni erano considerati forza lavoro: custodivano le greggi, aiutavano le madri in tutti i lavori agricoli. Gli uomini tornavano a casa nella stagione invernale, per ripartire in primavera, approfittavano del forzato riposo per tagliare la legna e svolgere tutte le riparazioni necessarie a mantenere in buon stato la campagna, le stalle e la casa di abitazione. Tutti dovevano lavorare, si iniziava da bambini e si finiva il giorno della morte, erano esentati solo gli invalidi gravi, chi era affetto da menomazioni meno problematiche dava comunque il suo contributo all’economia familiare accudendo i bambini e nelle attività le meno faticose.

testo di ANGELO SALA
pubblicato sul sito www.valsassinacultura.it

 

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