Immaginare Premana senza i suoi alpeggi e i suoi maggenghi è come pensare al ritratto di una dama rinascimentale priva di gioielli. Gioielli che qui, tra i verdi prati della Val Varrone, sono custoditi gelosamente perché i «looch», questo il loro nome dialettale, sono il frutto del sudore e della fatica di generazioni. Ce lo ricordano le migliori pagine di Antonio Bellati, ma ce lo ricordano soprattutto le sapienti trame di pietra, le solide architetture nelle quali la tradizione non rinuncia al progresso fatto di pannelli solari e acqua corrente. Se ne ha la riprova percorrendo l’itinerario che da Premana raggiunge l’alpeggi di Chiarino: un percorso facile che si svolge tra i pascoli e i boschi di larici della Val Marica che offre scorci poco noti del paese delle forbici e dei coltelli (il capoluogo della Val Varrone è noto per la tradizionale produzione delle lame) e poi, superata l’alpe Ariale e raggiunta quella di Chiarino, ecco spalancarsi l’ampio panorama che abbraccia cime note e spettacolari come Legnone, Pizzo Alto, Monte Rotondo, Pizzo Mellasc, Pizzo Varrone e Pizzo dei Tre Signori.

Si può partire da Premana, portandosi sulla circonvallazione a valle del vecchio nucleo dove si stacca la mulattiera con la freccia metallica e la scritta «Alpe Chiarino-Piz d’Alben» che, scendendo nel bosco, consente di giungere in una ventina di minuti sul fondo della Val Varrone al ponte di Bonom. Oppure si può evitare di attraversare l’abitato di Premana , dirigendosi dal nuovo ponte della carrozzabile al vecchio ponte dove si stacca la strada per Giabbio; l’auto può essere lasciata nella zona della nuova area industriale e da qui raggiungere rapidamente il ponte di Bonom. Una volta lasciata a sinistra la strada per il rifugio Casera vecchia di Varrone, si imbocca la mulattiera, dove un cartello indica, oltre alla nostra meta, il tempo necessario per raggiungerla: poco più di due ore. Si sale a Lavinol, nucleo di baite ancora adagiato sul fondovalle del Varrone e circondato da un bosco relativamente giovane, a testimonianza del fatto che qui fino a mezzo secolo fa prevalevano ancora i pascoli. Non a caso, a Lavinol, fino al dopoguerra funzionò una latteria con annessa casera per la produzione e la stagionatura del formaggio.

Si continua, in costante salite, per le baite di Porcile di Sotto (dove dirama sulla destra il tracciato per il fondo della Val Marcia) e quelle di Porcile di Sopra, perfettamente allineate con gli edifici del nucleo di Premana, che sta proprio di fronte, sull’altro versante del Varrone. I prati di Porcile, uno dei «looch» più antichi del territorio premanese (le prime notizie risalgono al 1300), sono più ampi di quanto si possa intuire osservandoli da Premana. Grandi e ben tenuti: qui è ancora praticato il rito della fienagione e anche se la macchina ha preso il posto della falce, il fieno viene ancora riposto manualmente negli arieggiati fienili che si trovano direttamente sopra la stalla. Tanta cura del territorio è legata, secondo le ricerche del premanese Antonio Belati documentate nel volume «Ca e casinél», al fatto che in questa zona i terreni sono stati dissodati fino ad anni recenti. La località Pra Noof (prato nuovo) rappresenta un toponimo eloquente confortato, «sul campo», dalla distanza tuttora mantenuta tra bosco e alpeggi.

La mulattiera, pur in notevole pendenza, è stata sapientemente costruita per permettere un transito agevole alle mandrie, oltre che il trasporto a valle della legna, del fieno, del fogliame del sottobosco e dei prodotti caseari. Il passaggio è facilitato dai lunghi gradoni, dove i sassi tondeggianti si alternano alle piode inserite a lama di coltello, senza alcun bisogno di cemento. L’accostamento, solo apparentemente casuale, è il risultato di una sapienza antica che alterna scivolamento a frenata, mantenendo costante la velocità del carico. Infine si raggiungono le baite dello Zucco. Le fioriture di primavera, come quelle dell’estate, offrono una variopinta coreografia in grado di ingentilire la monotonia della pietra e delle baite. Anche nel mare verde del bosco non mancano effetti cromatici straordinari, primo fra tutti quello dei maestosi ciliegi, una volta isolati tra i prati, adesso parte integrante della vegetazione arborea che, purtroppo, impedisce loro di portare a maturazione i frutti. Ci provano comunque ogni anno, dapprima con la maestosa fioritura primaverile che ravviva i pendii, poi con i frutti estivi improponibili per l’uomo, ma che fanno almeno la felicità di centinaia di uccelli dal becco buono. Continuano, invece, a fare il loro dovere i castagni, che si notano anche per la loro monumentalità. Proprio attorno a Porcile, infatti, sono stati censiti due dei quattro castagni giganti di Premana, la cui circonferenza è superiore ai cinque metri. Non mancano infine i faggi: si trovano più su e, soprattutto in autunno, regalano altre spettacolari composizioni di colore.

Allo Zucco – uno dei «looch» più recenti del territorio premanese, risultato del dissodamento effetuato agli inizi dell’Ottocento – termina il primo tratto in salita del nostro percorso, l’occasione giusta per riprendere fiato lungo il tracciato a mezzacosta verso le baite di Dalben, il «looch» più lontano da Premana. Del toponimo dà una spiegazione Antonio Bellati nel volume già citato: esso deriverebbe dall’aggettivo «albus», che in latino significa «bianco», o dal verbo «albo», che significa «imbiancare». «Albente coelo» significa appunto all’alba, sul far del giorno, e questo significato si adatta assai bene alla montagna in questione, dalle cui dorsali, per molta parte dell’anno, sorge il sole per quanti vivono a Premana. Eccoci dunque sulla montagna dell’alba. Fino agli anni sessanta del secolo scorso erano ancora una cinquantina i bovini che salivano qui nel mese di maggio e vi restavano fino agli inizi di giugno, prima di raggiungere i pascoli dell’alto Varrone, per rientrare a ottobre. Oggi il bestiame si conta invece sulle dita di una mano assieme a qualche capra. Lasciamo ora la mulattiera che si inoltra nella Val Marcia verso l’alpe Ombrega e prendiamo il sentiero diretto ai pascoli e ai boschi di faggio. I tratti di pendio erboso offrono bei panorami sull’abitato di Premana, sul monte Legnone e sul Pizzo Alto, mentre la salita si mantiene costante fino alle baite dell’alpe Ariale, dove il sentiero si impenna ripido nel bosco di larici fino alla cappella che segna la fine del tratto più faticoso. Da qui infatti il tracciato si snoda pianeggiante a mezzacosta, ormai in vista delle baite dell’alpe Chiarino. Non mancano i premanesi, particolarmente legati a questi luoghi, pochi invece gli escursionisti da fuori: li chiamano «forest», cioè i forestieri, perché arrivano da fuori e a limitarne l’afflusso contribuisce anche il fatto che l’itinerario si snoda dai 1000 metri di Premana ai 700 di Giabbio, quindi ai 1500 di Chiarino.

La vastità dell’orizzonte, che comprende anche uno scorcio di lago, contribuisce a rendere quest’alpe un luogo estremamente rilassante, anche in occasione del festoso e chiassoso rito del «past». L’antico rito è legato indissolubilmente alla tradizione dell’alpeggio, un convito al quale partecipavano e partecipano tutti gli alpigiani. Era il momento che concludeva, di fatto, il periodo della monticazione e aveva una funzione, per così dire, di compensazione: ravvivava, infatti, la cordialità e appianava le controversie che inevitabilmente sorgevano quando si lavorava in condizioni tanto difficili. Il past di Chiarino è tuttora molto sentito dagli abitanti di Premana. Anche perché, tra quelli premanesi, è l’alpeggio più faticoso da raggiungere: arrivarci ha quindi il sapore di una conquista. Facilitata anche dal fatto che lungo l’intero percorso non mancano copiose fontane per dissetarsi e cappelle votive che invitano a una breve sosta. Le ha descritte tutte Antonio Bellati in un altro dei suoi bei libri, «Oltre le pietre». Alcune pagine sono dedicate proprio alla cappella dell’alpe Chiarino, che risale alla seconda metà del Seicento. «Da lassù – vi si legge – il mondo ci parrà più bello, più rasserenato». In piena primavera i multicolori fiori di campo attirano colonie di farfalle. L’impegno nel riconoscerle basta a far dimenticare la fatica. Faggeti e abetaie spandono profumi di una terra ormai riscaldata e i torrentelli sono carichi d’acqua.

Da Chiarino, in meno di un’ora, superate le baite e la stazione della teleferica, si può salire alla panoramica cima del Pizzo d’Alben, percorrendo tratti a volte anche ripidi di bosco e di pascolo. Qui si conquistano altri scorci da favola sui laghi di Como e di Lugano, sull’alpe Paglio, il Cimone di Margno e le due Grigne, sulle cime delle Alpi Lepontine e delle Retiche. Sono la ricompensa della fatica di altri 300 metri di dislivello superati.

 
testo di ANGELO SALA
pubblicato sul sito www.valsassinacultura.it

 

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