Raccontano che sono stati gli arabi, sin da epoche remote, ad addestrare i falchi per una caccia del tutto particolare, riservata ai nobili e ai militari d’alto rango. I rapaci erano custoditi da un falconiere che rispondeva con la propria vita della salute degli spietati cacciatori alati. Ogni giorno aveva il compito di allenare il campione e di mostrarlo al sultano, al califfo o al pascià che fosse. La visita assumeva il ritmo di una cerimonia e aveva luogo in un angolo particolare del giardino, dove camminavano lenti i pavoni, i fagiani argentati e dorati e le galline provenienti dall’Egitto, ossia le faraone. Dal marzo 2003 qualcosa di simile accade, tutti i giorni fino alla fine di ottobre, in un altro recinto che nulla ha di meno, anzi!, rispetto ai giardini fioriti e recintati e ricchi di fontane che gli arabi chiamano con la stessa parola che usano per indicare il paradiso, luogo di celesti beatitudini: il castello di Vezio, solitario fra edere, cipressi ed olivi, uno dei superstiti fortilizi che munivano arcigni i promontori più avanzati, o si ergevano a dominare o questa o quella borgata lariana. Qualche rudere merlato con una torre quadrata di trenta metri che s’associa all’immagine di due borghi: Varenna con le sue vecchie case, le ville sontuose, i parchi lussureggianti e le insigni chiese che ne fanno la gemma più bella della riviera lecchese; e Vezio, un mucchietto di vecchie case attorno al vetusto oratorio di Sant’Antonio, quasi accovacciate sotto la torre.

È qui che nella primavera del 2003, per iniziativa dell’associazione Amici del Castello, viene data ospitalità ad un falconiere, Luca Castiglioni, ed ai suoi quattro animali, i due falchi Teo e Linda, la poiana Regina e il falco pellegrino Bastian. Un’attrazione che ha un crescente successo tra i visitatori del castello, soprattutto quando, nella parte centrale del pomeriggio, si svolge la fase di addestramento in volo. I rapaci vengono fatti volare, si librano alti nel cielo quasi giocando con il vento, rimanendo quasi immobili sfruttando le correnti di aria calda che salgono dalle acque del Lario e al richiamo del falconiere tornano in picchiata al castello. Il falconiere illustra ai visitatori le caratteristiche e le curiosità del suo lavoro, il rapporto con gli animali, le modalità per allevarli ed addestrarli. Quanto basta, aggiungendo a questi ingredienti un pizzico di fantasia e qualche nozioncina di storia, per fare un salto all’indietro nel tempo di quasi mille anni.

Una giornata con i rapaci al castello di Vezio insegna tante cose. Innanzitutto che i rapaci devono vivere da soli, ognuno nella sua casetta in legno nel verde all’interno del recinto merlato. Tutti i giorni ore e ore di addestramento individuale, raramente con due animali insieme. Nell’attrezzatura del falconiere è fondamentale il guanto di protezione, per evitare le ferite degli artigli. Le evoluzioni in volo sono un fatto naturale, proprio di questi rapaci, che per la loro capacità di rimanere immobili nell’aria, anche a grandi altezze, di scendere poi in picchiata sulla preda senza lasciarle scampo, assumono quel fare altero che promana dall’animale appollaiato sul guanto del falconiere. A Teo, Linda e Regina si sono aggiunti il barbagianni Semola e il nibbio bruno Morgana. «Ognuno geloso dell’altro – spiega Castellano – e per questo oggetto delle stesse attenzioni. Addestrarli è sempre un’emozione fortissima. Un paragone? Penso sia come cavalcare lanciati al galoppo in una prateria: la sinergia che in quel momento si verifica tra il cavallo e il cavaliere è la stessa che c’è tra il falconiere e il rapace. Ben altra cosa che un giro a cavallo nel recinto di un maneggio».

Ben altra cosa, certo. Al punto che il «padre» della falconeria moderna – che ha le sue radici nell’alto Medioevo e che è una componente fondamentale e spettacolare delle sempre più diffuse rievocazioni storiche, con accampamenti medioevali e decine di figuranti – è nientemeno che l’imperatore Federico II autore di quel De arti venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli) che oltre ad essere il primo manuale sulla materia, è stato anche al centro del conflitto con il Papato, se si dà credito a quegli storici secondi i quali Innocenzo IV lo dichiarò codice proibito. Bastò un falco – o meglio un trattato sulla falconeria – per turbare i già precari equilibri politici di un tempo in cui il Papa era considerato l’unico depositario di un sapere trasmesso da Dio. Guai allora ad un imperatore che osava discettare di scienze, in questo caso squisitamente naturali. E sì che Federico II, quasi a voler mettersi al riparo da possibili contestazioni, aveva tracciato del falconiere un ritratto che pare quello di un monaco: «Il falconiere – scrive – non deve avere vizi, non deve bere e non avere una donna…».

Il resto è un batter d’ali rapido e ritmato con il quale il rapace s’innalza nell’azzurro del cielo, sempre più in alto, e noi a seguirlo con lo sguardo fisso, senza perderlo di vista fino a quando scompare nella immensità del cielo. Il momento in cui il suo posto viene preso dai ricordi, più o meno letterari, più o meno ricchi, più o meno suggestivi e carichi di immaginazione. Ci riporta alla realtà la picchiata del rapace che, docile, va ad appoggiarsi sul guanto del falconiere.

testo di ANGELO SALA
pubblicato sul sito www.valsassinacultura.it

 

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