Nella risalita per la sponda lecchese del Lario ci fermiamo a Corenno Plinio, con Paolo Giovio che nel Cinquecento in giro nelle terre che Francesco Sfondrati aveva ricevute in feudo da Carlo V, per descrivergliele poi in «Larius», scopriva che «saxo adiacet Corenum cum arce», cioè che il borgo era addossato a una roccia e aveva una rocca. Incontriamo quindi, nel Seicento, Sigismondo Boldoni il quale, pure con «Larius», ci informa che sul punto più alto c’è una rocca per la più parte rovinata; ma, aggiunge, giocondissima per le dolci aure che vi spirano. E nel Settecento è la volta di Anton Gioseffo della Torre di Rezzonico a narrarci, ancor egli con «Larius», che la rocca di Corenno fu «munitissima, et plura bellorum tulit incommoda» e che a bruciar Corenno fu il lecchese Francesco Morone, comandante delle truppe cesaree. Ai tempi di Anton Gioseffo la rocca di Corenno era già «semidiruta». Così nell’Ottocento Ignazio Cantù in «Quattro giorni in Milano» può rilevare: «Serba Corenno le reliquie del castello appartenente al conte Andreani-Sormani». Negli atti di un convegno sulle fortificazioni del lago di Como, tenutosi a Varenna qualche anno fa (maggio 1970), la struttura di Corenno è presentata (da Carlo Perogalli) come castello-recinto attribuibile al XIV secolo, di pianta irregolare tendenzialmente quadrata, interamente costruita in pietra, con ingresso a settentrione, protetta da una torre quadrata del tipo «a vela», e con un’altra torre quadrata sul lato a monte.

testo di ANGELO SALA
pubblicato sul sito www.valsassinacultura.it

 

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